Reputiamo improponibile quanto disposto all’art.1, comma 2, della proposta di legge sul made in Italy, che lancia l’istituzione del marchio “Italian Quality”.
La proposta di legge parte dal lodevole e doveroso intento di promuovere la qualità dei prodotti italiani, nel nostro Paese e all’estero, combattendo il dilagante fenomeno dell’italian sounding che danneggia enormemente la nostra economia e l’immagine dei nostri prodotti.
Nell’articolo citato, però, si introduce un elemento di forte criticità laddove si propone l’istituzione del marchio “Italian Quality” per quei prodotti che “hanno subito nel territorio italiano almeno un’operazione ulteriore e precedente l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ai sensi dell’articolo 60 del Codice Doganale”.
In questo modo, in pratica, si formalizza un vero e proprio raggiro a danno dei cittadini, permettendo di definire italiano un prodotto che ha subito anche solo una semplice rifinitura.
È una logica contro cui ci battiamo da sempre, che non deve essere legittimata in alcun modo, perché aprirebbe la strada a veri e propri inganni a danno dei consumatori e dell’economia italiana.
Basterebbe infatti che un prodotto realizzato in Spagna, con materie prime provenienti da Timbuctù subisse una trasformazione in Italia, per poterlo definire italiano. Un principio inaccettabile da ogni punto di vista, specialmente per quanto riguarda il delicatissimo settore dell’agroalimentare.
Per questo rivendichiamo il pieno diritto dei cittadini di conoscere con precisione la reale provenienza dei prodotti. Un diritto fondamentale che potrà essere garantito solo da un sistema di etichettatura trasparente che tenga traccia di ogni passaggio di filiera.