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Si invoca sempre più spesso e si celebra quale strumento straordinario di tutela in grado di permettere a un gran numero di cittadini di ottenere giustizia di fronte al medesimo danno: ma sappiamo davvero come funziona la class action in Italia? Ci siamo mai chiesti perché finora abbia avuto così poco successo?

Cercheremo di spiegarvelo in questo breve focus che analizza gli aspetti critici e i punti di forza della nuova class action.

 

Entrata in vigore

Il c.d. Decreto Ristori bis ha nuovamente rinviato l’entrata in vigore della nuova disciplina della class action in Italia, fissando, salvo ulteriori e possibili ulteriori rinvii legati allo stato di emergenza Covid 19, al 19 maggio 2021 la data di entrata in vigore della riforma.

Lungamente invocata dalle Associazioni di Tutela dei consumatori, quale unico valido strumento di contrasto alle pratiche commerciali più malevole e diffuse tra i consumatori, la riforma della class action il prossimo maggio, doppierà i 25 mesi di proroga per l’entrata in vigore.

Originariamente previsto, dalla L. 31/2019, per il 19 aprile 2019, il debutto della nuova versione della class action è stato oggetto di continui rinvii, solo da ultimo giustificabili dalla presenza dell’emergenza Covid, che sono il sintomo delle fortissime resistenze che questo strumento processuale sta incontrando.

 

 

Lo scoglio dell’ammissibilità…

Il primo tentativo di introduzione della class action ha visto concentrarsi inizialmente l’attenzione degli operatori del diritto soprattutto, se non quasi esclusivamente, sui principi di ammissibilità della domanda, trascurando l’intera fase successiva.

Tale esasperata attenzione è anche il frutto della scarsa esperienza maturata da questa procedura che, nei sui pochi anni di vita, ha visto iniziative che si sono sistematicamente scontrate con questo primo, spesso insormontabile, ostacolo.

Le motivazioni di un irrigidimento sulle regole di ammissione della class action erano forse motivate (a torto) da un diffuso timore che tale azioni, se non rigidamente vincolate in un percorso processuale perimetrato, avrebbero potuto portare a una moltiplicazione di iniziative non meritevoli e pretestuose, aventi ad oggetto rapporti ad altissima incidenza numerica (ad esempio le utenze domestiche), avviate sull’assunto di una economicità di adesione, a beneficio più dei promotori che degli aderenti. Tale impostazione, che trapela dalla continua revisione dei requisiti dei soggetti autorizzati alla promozione dell’azione, lascia trapelare un chiaro pregiudizio verso i portatori di interessi collettivi, in primis le associazioni dei consumatori.

Un timore alquanto inspiegabile, dal momento che l’ammissibilità di un ampio bacino di interessati costituisce l’ovvia conditio sine qua non di una azione di classe.

 

 

Il controverso principio di omogeneità

Questa esasperata attenzione per l’avvio della procedura ha comportato uno scarso interesse per problemi ben più ingombranti: in primis quelli legati al modellamento del principio di omogeneità così come applicabile alla fase istruttoria, la fase processuale più determinante per l’esito di un giudizio.

In buona sostanza l’eredità dottrinale e giurisprudenziale dei primi tentativi ha delineato il principio di stretta omogeneità dei diritti di cui si chiede la tutela con una class action.

Tuttavia la giurisprudenza ha traslato il principio di omogeneità anche alla fase istruttoria imponendo che i mezzi istruttori e quindi la prova che da essi scaturisce, fossero omogenei, ed anzi unici, per l’intera classe.

Questo comporta che i componenti della classe di aderenti all’azione debbano trovarsi in posizioni sostanzialmente identiche, non solo in relazione al diritto leso, ma anche alle condotte lesive subite, perché da esse dipendono gli strumenti istruttori, compresi quelli di quantificazione del danno, dovendosi quindi parlare più che di omogeneità delle posizioni giuridiche della classe di una vera e propria identità.

 

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